I dedicate this post to a dear friend who I didn’t have the chance to know better.
17 anni. Viso dolce. Studente modello.
Avevo sei anni. A quell’epoca non ci capivo molto di moda e il mio sogno era quello di diventare una hostess: le vedevo perfette, belle e gentili, e invidiavo la loro possibilità di trascorrere le giornate tra le nuvole e vedere tanti posti diversi.
Mi immaginavo con il tailleur e lo chignon, sorridente e felice sulle piste del Charles De Gaulle di Parigi o dell’Heathrow di Londra, sempre in procinto di partire. Trovavo estremamente affascinante l’idea di non avere radici in nessun posto.
Anche ora la penso allo stesso modo. Studio le lingue. Vedo il mio futuro nel viaggio. Sempre in fuga da qualcosa. Peccato che non si possa rifuggire dai ricordi, loro non muoiono. L’unico legame con il passato e le persone defunte.
Out of the darkness and into the sun, but I won’t forget the ones that I loved.
I’ll spread my wings and I’ll learn how to fly, though it’s not easy to tell you goodbye…
I’ll take a risk, take a chance, make a change, and breakaway.
Kelly Clarkson scandisce il ritmo del viaggio, mentre la campagna romagnola mi scorre davanti agli occhi. Il sole che tramonta sembra quasi seguirmi, muovendosi alla stessa velocità del treno.
Sprofondata nel mio spazioso e soffice posto di prima classe osservo le nuvole che a tratti passano davanti al disco solare, nascondendo parzialmente l’astro rosso alla vista.
Giro l’ultima pagina dell’ultimo romanzo di Thomas Greene. Amore e morte.
Finestre dai vetri infranti sfrecciano al di là del finestrino e scompaiono dietro di noi.
Ho fatto una scelta. Ho preso una decisione. In realtà l’avevo già presa sull’aereo, quest’estate.
Non importa se incontri delle difficoltà. Non importa se fanno di tutto per ostacolarti. Non importa quanto a lungo attendi. L’importante è che tu ne sia convinto.
Avevo sei anni. Era ottobre, come adesso. Due famiglie. Due bambini. Lo adoravo. Aveva il palloncino a forma di delfino. Siamo saliti sulle terrazze del Duomo. Ridevamo spensierati come solo due bambini di sei anni sono in grado di fare.
Quell’autunno era caldo come questo: c’era un sole stupendo quando sono andata a trovarlo. Ho visto i libri nella sua stanza, disposti in perfetto ordine sulle mensole sopra il letto.
Guerra e Pace, Il fu Mattia Pascal, I Malavoglia, Zio Tungsteno, Il Rosso e il Nero, solo per citarne alcuni. Un classicista che frequentava il liceo scientifico. Poi però noto la trilogia di Eragon e i racconti di Edgar Allan Poe.
Eh sì, avremmo avuto molto di cui discutere.
Ma non era lì.
Poco più tardi, dopo averlo trovato, gli lasciai una busta chiusa, completamente bianca.
Si sta facendo buio. Le ore passano veloci, se sai cosa fare. Alla periferia di una città, molto probabilmente Milano, stanno edificando dei palazzi nuovi.
Anche la sua nuova casa è stata costruita di recente.
Tutti i miei amici sanno che amo le rose. Una volta mi regalarono una rosa blu e io mi commossi tantissimo. Un giorno di maggio di qualche anno fa ho regalato a mia madre una bellissima rosa rossa in un vaso di vetro azzurro dal collo alto. È una donna che non mostra mai esplicitamente i suoi sentimenti, ma so che ha apprezzato quel gesto.
Ma sono le rose bianche quelle che preferisco. Amo il loro colore candido e la loro purezza immacolata.
E sono rose bianche quelle che ho portato a quel giovane stroncato da un incidente.
Riposava in un cimitero costruito pochi anni fa, a Prato, una ridente cittadina della Toscana. Una semplice croce di legno in attesa della lapide di marmo. La foto mostrava un ragazzo che non poteva avere più di diciotto anni, con un viso dolce e l’aria di uno studente modello. Ho saputo che al termine del liceo avrebbe frequentato la facoltà di economia dell’Università Bocconi di Milano.
Sul legno era inciso in caratteri color del rame, spaziati e regolari: 21 ottobre 1991 – 12 luglio 2009.
Quando l’ho incontrato, gli ho sorriso e l’ho salutato.
“Ciao Iacopo”.
Ho appoggiato le due rose sulla la ghiaia, sotto il suo nome.
Parole mai dette. Il rimpianto di una vita.
C’era una busta bianca. Conteneva un semplice biglietto, sul quale erano vergate, con la grafia minuta e tondeggiante di una ragazza diciasettenne, soltanto due parole: Mi manchi.
Andandomene, strizzai gli occhi sotto la luce del sole e mi passai una mano sulle ciglia umide.
Ciao, Iacopo.
Addio, amico mio.
E.